Archivio per la categoria ‘Letrari’

Avete mai sognato di poter bere un Trento Doc ad un prezzo ragionevole, diciamo non oltre i 2,50, o giù di lì, a coppa. E magari di poterlo anche assaggiare gratuitamente, come aperitivo d’entrata, prima di sceglierlo come vino a tutto pasto? Da Rovereto alla Piana Rotaliana, da qualche giorno lo spumante low cost non è più un sogno. Bella notizia. Fra l’altro lo spumante di cui stiamo parlando non è uno sparkling wine qualsiasi: è un Talento–Trento Doc che esce dalla maison più prestigiosa di Rovereto, quella di uno dei più vecchi spumantisti nazionali: Nello Letrari. Reduce, proprio in questi giorni, dai due massimi riconoscimenti italiani del settore: i tre bicchieri del Gambero Rosso e i cinque grappoli Ais, la guida dei sommelier italiani. I ristoranti che hanno aderito all’iniziativa sono 4: uno a Rovereto, ”Tema”, due a Trento, “Due Spade” e “Villa Madruzzo”, e uno a San Michele all’Adige, “Da Pino”. La promozione, chiamiamola pure così, del Trento Doc low cost, è partita in questi giorni. Poi si vedrà. E, forse, in futuro ci saranno altri locali che seguiranno questa strada. Almeno questo sperano, i due Letrari che oggi mandano avanti insieme una delle aziende spumantistiche più esclusive d’Italia: con Nello, infatti, da molti anni lavora anche la figlia Lucia che ormai in azienda si è ritagliata uno spazio tutto suo e ha cominciato a firmare da sola alcune etichette come il “Rosè +4”. La abbiamo chiamata promozione low cost, ma in realtà non si tratta solo di questo. Dietro c’è una vecchia idea del fondatore, che fra l’altro quest’anno ha festeggiato il cinquantesimo compleanno della sua prima bottiglia, il mitico Equipe 5. Roba che è impossibile dimenticarsi. E l’idea è questa: far diventare il metodo classico uno spumante per tutti. Un po’, facendo tutti i dovuti distinguo perché si tratta di cose completamente differenti, come è capitato in questi anni per il Prosecco. Non solo un vino a tutto pasto. Non solo un vino per ogni ora del giorno e per ogni occasione. Ma sopratutto un vino destinato a tutti i consumatori e non solo ai target di fascia medio-alta. Solo qualche mese fa, al nostro giornale Letrari aveva consegnato una provocazione: “Invece di fare le feste della birra, facciamo le feste dello spumante a 1 euro”. E aveva aggiunto: “Lasciatelo dire a me che sono vecchio del mestiere: i vip lo spumante lo bevono solo se glielo regali, noi invece dobbiamo rivolgerci, e con prezzi ragionevoli, al consumatore medio”. Una provocazione che in qualche modo suonò come una bacchettata rivolta agli espertoni del marketing spumantistico trentino, Istituto Trento Doc compreso, che, al contrario, continuano a vendere l’immagine del metodo classico come allusione ad uno status symbol esclusivo e di per lo più irraggiungibile per il consumatore medio; che continua ad associare il metodo classico alle cerimonie e alle feste comandate. E probabilmente anche per questo, nessuno fino ad oggi ha raccolto la provocazione del vecchio Letrari. Dalla maison di Rovereto ora, al contrario, arriva una lezione diversa, quella dello spumante per tutti. Staremo a vedere se farà scuola. Fra gli altri produttori, fra i ristoratori e i baristi, ma soprattutto fra chi ha in mano la promozione istituzionale del Trento Doc. E se sarà apprezzata dal consumatore finale che oggi, anche in Trentino, continua a preferire, e non solo per questioni di prezzo, il fluttino di Prosecco veneto alla coppa di metodo classico. Ed è un vero peccato.

Tiziano Bianchi, L’Adige 8 maggio 2011 – Era un Trentino che non sapeva ancora dove andare e cosa fare, quello degli anni Cinquanta. Era appena uscito dalla guerra e l’agricoltura era segnata da un’arretratezza quasi ottocentesca. La viticoltura ancora peggio: «Le pergole di Nostrana erano lunghe mezzo metro, ne poteva uscire solo acqua, in mezzo ai vigneti si coltivavano patate e carote. Eravamo alla sussistenza». Loro, la banda dei cinque – i magnifici cinque dello spumante -, avevano appena completato gli studi rigorosi dell’Istituto agrario di San Michele. E avevano voglia di guardare avanti. Giovani di belle speranze con la testa rivolta al futuro, pensavano a come cambiare il mondo, a come innovare la viticoltura: «Passavamo le nostre estati a viaggiare, Europa, Stati Uniti, Sud Africa, volevamo conoscere il mondo del vino fuori dai confini nazionali. Organizzavano tutto l’associazione degli enologi e quella degli ex allievi dell’Istituto. E fu durante uno di quei viaggi che cominciammo a capire che anche per noi il futuro avrebbe potuto essere costruito attorno allo spumante, anche attorno allo spumante». A raccontarlo è Leonello Letrari, classe 1931. Un omone di ottant’anni che, insieme alla figlia Lucia, è capo di una delle maison – la cantina è a Rovereto ma si estende su 22 ettari lungo la valle dell’Adige fino Belluno Veronese – che dello spumante, Talento e Trentodoc, rappresenta l’eccellenza italiana. Quest’anno ne “tireranno” 60 mila bottiglie. E sempre quest’anno Nello Letrari festeggia i suoi primi 50 anni di bollicine: mezzo secolo da quella prima bottiglia di Equipe 5, che è stata una delle pietre miliari del metodo classico nazionale. Ma torniamo ai viaggi: «Partivamo da una terra arretrata, ma non è che altrove vignaioli e cantinieri se la passassero meglio. Però c’era un però: ci rendemmo conto che all’estero, dal Portogallo alla Francia passando per la Spagna, c’era qualcosa che faceva la differenza: erano le maison dello spumante, cantine che sembravano salotti, tappeti rossi, vigneti coltivati come giardini di rose. Insomma tutta un’altra cosa rispetto alle nostre cantine e alle nostre campagne. Capimmo che lì giravano soldi, tanti. E anche tanta qualità e tante competenze». L’idea di Equipe 5 nacque così. Certo c’era già Ferrari. Ma quella da sempre è tutta un’altra storia. I magnifici 5 erano lui, il Nello, e altri 4 giovani che poi avrebbero fatto la loro gran bella strada: Bepi Andreaus, Riccardo Zanetti, Pietro Tura e Ferdinando “Mario” Tonon. Una parentesi. Nello, l’idea dello spumante aveva anche cercato di venderla ad una delle case vitivinicole più blasonate del Trentino: la Bossi Fedrigotti per la quale lavorava già da qualche anno. Stava lanciando sul mercato uno dei primi bordolesi italiani, prima del suo Fojaneghe c’era stato solo il Castel San Michele dell’Istituto. Fu un successo commerciale incredibile, un Sassicaia alpino ante litteram, il cui segreto stava in una miscela indovinata di innovazione, qualità e marketing: «In quegli anni il vino si vendeva a 150 lire, noi uscimmo con una bottiglia da 950 lire. Il Fojaneghe andò a ruba». Anche se fu bocciato dalla commissione di assaggio della Mostra dei Vini (“Vino legnoso e resinoso, vino greco”, fu l’incredibile verdetto), fu un successo che durò vent’anni e arrivò a sfiorare le 400 mila bottiglie. Anche da quella prima bottiglia di bordolese roveretano sono passati giusto cinquant’anni. E il gruppo Masi (Valpolicella), che oggi controlla la Bossi Fedrigotti, a giugno celebrerà il compleanno del Fojaneghe: Nello Letrari, naturalmente, sarà lì a raccontare quella storia. Ma torniamo all’Equipe 5. La Bossi Fedrigotti, a cui Leonello aveva proposto l’idea dello spumante, non accettò: «Non mischiare il sacro con il profano, mi dissero. E allora tornai alla carica con i miei compagni di viaggio». E così nacque Equipe 5; era il 1961, cinquant’anni fa appunto. Soci, quei cinque ex allievi di San Michele che giravano l’Europa, tutti fra i venti e i trent’anni. Detto fatto. La prima sede fu a Lavis, in un palazzotto dove Ferrari tempo prima aveva già trafficato con le sue bollicine, poi nelle cantine Pedrotti di Mezzolombardo, ex salumificio degli Asburgo. Fu una bella storia di successo quella di questo spumante trentino, una storiona lunga 25 anni: «Le uve erano quelle pregiate di Mazzon e dei Pochi di Salorno, selezioni attente di Chardonnay e Pinot Nero. La vinificazione ce la faceva Hoffstätter, poi la spumantizzazione, remuage e tirage , a Mezzolombardo». Nel giro di vent’anni i magnifici 5 passarono da poche migliaia a mezzo milione di bottiglie. Tanto per far capire la dimensione del successo, erano i tempi in cui Ferrari arrivava sì e no al milione. Equipe 5 divenne lo status symbol di una generazione da boom economico ma soprattutto lo straordinario veicolo di immagine di un Trentino da esportazione. Alla fine degli anni Ottanta per tante ragioni («Famiglia, salute, ma anche perché forse eravamo soprattutto artigiani e non imprenditori puri»), l’etichetta passa di mano e finisce di essere sinonimo della viticoltura a nord di Verona: prima il gruppo Buton, quello della Vecchia Romagna, poi Cinzano e infine Cantina di Soave, la coop veneta che da qualche anno ha resuscitato l’etichetta e ne fa un Brut all’altezza di quella prima grande bottiglia del 1961. Ma cosa ha lasciato questa bella storia spumantistica? «Mah, non so davvero cosa dire. La nostra idea fu innovativa, ma allora non fu capita, forse eravamo troppo avanti noi. A partire dal nome francofono che avevamo scelto e che per quei tempi, ancora quasi autarchici dal punto di vista linguistico, fu quasi una palla al piede: alla fine quasi tutti lo pronunciavano storpiandone il nome. Anche la cooperazione allora non capì: invece di scegliere con decisione la strada dello champenois, si buttò sugli charmat. Capite bene la differenza». Leonello Nello Letrari, dalla bellezza dei suoi ottant’anni e reduce da un intervento a cuore aperto (30 anni fa), è ancora uno di quei giovanotti di belle speranze degli anni Sessanta che già allora, e oggi più di allora, avevano molte cose da dire e da insegnare. Ma soprattutto non è un uomo che vive di ricordi. Anzi, parla più volentieri del futuro che del passato (con quello ha già fatto i conti e lo ha archiviato in un prezioso libricino uscito qualche anno fa, a cura di Nereo Pederzolli, per ArtimediaEnoika: “Viti e vini di una vita”). Ma del futuro vuole parlare in grande, pensa alle strategie. Non vuole lasciarsi invischiare nelle polemichette e nei litigi che anche in questi giorni stanno annegando l’associazione dei Vignaioli: «Lasciamo perdere, qui si continua a litigare. E non ne esce niente di buono». Ma se gli chiedi un’opinione sul futuro dello spumante italiano non si tira indietro: «Questo per lo spumante è un momento magico, le vendite si sono impennate. Ora siamo dentro l’onda giusta e la dobbiamo cavalcare». Sì, ma come? «Abbiamo bisogno prima di tutto di un ombrello nazionale, un marchio italiano che racchiuda tutte le nostre esperienze spumantistiche. In Spagna hanno Cava, in Francia lo Champagne. Noi non siamo riconoscibili, siamo rimasti un arcipelago con tante eccellenze ma senza un marchio comune. Eppure uno strumento ce lo abbiamo, è il Talento (Nello, a suo tempo ne è stato uno dei fondatori, come è stato fondatore dell’istituto italiano spumante, ndr). Usiamo questo marchio per farci conoscere nel mondo, altrimenti, se ognuno fa per sè, come sta accadendo oggi, non andremo da nessuna parte». E il TrentoDoc? «Quello è un valore aggiunto, una storia da raccontare dentro la storia del Talento. Ma non basta per essere riconosciuti nel mondo. Se le istituzioni provinciali in questi anni hanno fatto qualcosa di buono è stato di credere nello spumante, ma non bisogna illudersi basti il nostro marchio locale per sfondare sui mercati mondiali. E poi andrebbe promosso in un altro modo». Come? Nello sorride e poi dice la sua da astuto uomo di marketing, oltre che di spumante, quale è: «Smettiamola di promuovere lo spumante solo negli hotel a 5 stelle, come se fosse un oggetto extra lusso. Lo spumante dobbiamo farlo bere a tutti. Invece di sponsorizzare le feste della birra si facciano le feste campestri dello spumante, con i calici ad un euro. Con tutti i soldi che si spendono in promozione, se solo un terzo fosse destinato a questo genere di iniziative avremmo già fatto un bel passo avanti. E invece vedo che si continuano a spendere soldi per grandi eventi destinati alle élite, ai vip che lo spumante lo bevono solo se glielo regali». Una bella provocazione, che arriva da un protagonista geniale e innovatore della viticoltura italiana. Un doppio anniversario (Fojaneghe ed Equipe 5) di cui in Trentino, tuttavia, quasi nessuno si è ancora accorto. Poco male: delle invenzioni e delle innovazioni di Nello Letrari si sono ricordati in Valpolicella e nelle valli padane. Domani, a Parma, sarà ospite di una serata con duecento invitati organizzata da imprenditori, consumatori e amici emiliani. Auguri Nello, grande vecchio dell’enologia italiana e ideologo dello spumante per tutti. E non solo per i vip.

L’Adige 8 maggio 2011 – Era un Trentino che non sapeva ancora dove andare e cosa fare, quello degli anni Cinquanta. Era appena uscito dalla guerra e l’agricoltura era segnata da un’arretratezza quasi ottocentesca. La viticoltura ancora peggio: «Le pergole di Nostrana erano lunghe mezzo metro, ne poteva uscire solo acqua, in mezzo ai vigneti si coltivavano patate e carote. Eravamo alla sussistenza». Loro, la banda dei cinque – i magnifici cinque dello spumante -, avevano appena completato gli studi rigorosi dell’Istituto agrario di San Michele. E avevano voglia di guardare avanti. Giovani di belle speranze con la testa rivolta al futuro, pensavano a come cambiare il mondo, a come innovare la viticoltura: «Passavamo le nostre estati a viaggiare, Europa, Stati Uniti, Sud Africa, volevamo conoscere il mondo del vino fuori dai confini nazionali. Organizzavano tutto l’associazione degli enologi e quella degli ex allievi dell’Istituto. E fu durante uno di quei viaggi che cominciammo a capire che anche per noi il futuro avrebbe potuto essere costruito attorno allo spumante, anche attorno allo spumante». A raccontarlo è Leonello Letrari, classe 1931. Un omone di ottant’anni che, insieme alla figlia Lucia, è capo di una delle maison – la cantina è a Rovereto ma si estende su 22 ettari lungo la valle dell’Adige fino Belluno Veronese – che dello spumante, Talento e Trentodoc, rappresenta l’eccellenza italiana. Quest’anno ne “tireranno” 60 mila bottiglie. E sempre quest’anno Nello Letrari festeggia i suoi primi 50 anni di bollicine: mezzo secolo da quella prima bottiglia di Equipe 5, che è stata una delle pietre miliari del metodo classico nazionale. Ma torniamo ai viaggi: «Partivamo da una terra arretrata, ma non è che altrove vignaioli e cantinieri se la passassero meglio. Però c’era un però: ci rendemmo conto che all’estero, dal Portogallo alla Francia passando per la Spagna, c’era qualcosa che faceva la differenza: erano le maison dello spumante, cantine che sembravano salotti, tappeti rossi, vigneti coltivati come giardini di rose. Insomma tutta un’altra cosa rispetto alle nostre cantine e alle nostre campagne. Capimmo che lì giravano soldi, tanti. E anche tanta qualità e tante competenze». L’idea di Equipe 5 nacque così. Certo c’era già Ferrari. Ma quella da sempre è tutta un’altra storia. I magnifici 5 erano lui, il Nello, e altri 4 giovani che poi avrebbero fatto la loro gran bella strada: Bepi Andreaus, Riccardo Zanetti, Pietro Tura e Ferdinando “Mario” Tonon. Una parentesi. Nello, l’idea dello spumante aveva anche cercato di venderla ad una delle case vitivinicole più blasonate del Trentino: la Bossi Fedrigotti per la quale lavorava già da qualche anno. Stava lanciando sul mercato uno dei primi bordolesi italiani, prima del suo Fojaneghe c’era stato solo il Castel San Michele dell’Istituto. Fu un successo commerciale incredibile, un Sassicaia alpino ante litteram, il cui segreto stava in una miscela indovinata di innovazione, qualità e marketing: «In quegli anni il vino si vendeva a 150 lire, noi uscimmo con una bottiglia da 950 lire. Il Fojaneghe andò a ruba». Anche se fu bocciato dalla commissione di assaggio della Mostra dei Vini (“Vino legnoso e resinoso, vino greco”, fu l’incredibile verdetto), fu un successo che durò vent’anni e arrivò a sfiorare le 400 mila bottiglie. Anche da quella prima bottiglia di bordolese roveretano sono passati giusto cinquant’anni. E il gruppo Masi (Valpolicella), che oggi controlla la Bossi Fedrigotti, a giugno celebrerà il compleanno del Fojaneghe: Nello Letrari, naturalmente, sarà lì a raccontare quella storia. Ma torniamo all’Equipe 5. La Bossi Fedrigotti, a cui Leonello aveva proposto l’idea dello spumante, non accettò: «Non mischiare il sacro con il profano, mi dissero. E allora tornai alla carica con i miei compagni di viaggio». E così nacque Equipe 5; era il 1961, cinquant’anni fa appunto. Soci, quei cinque ex allievi di San Michele che giravano l’Europa, tutti fra i venti e i trent’anni. Detto fatto. La prima sede fu a Lavis, in un palazzotto dove Ferrari tempo prima aveva già trafficato con le sue bollicine, poi nelle cantine Pedrotti di Mezzolombardo, ex salumificio degli Asburgo. Fu una bella storia di successo quella di questo spumante trentino, una storiona lunga 25 anni: «Le uve erano quelle pregiate di Mazzon e dei Pochi di Salorno, selezioni attente di Chardonnay e Pinot Nero. La vinificazione ce la faceva Hoffstätter, poi la spumantizzazione, remuage e tirage , a Mezzolombardo». Nel giro di vent’anni i magnifici 5 passarono da poche migliaia a mezzo milione di bottiglie. Tanto per far capire la dimensione del successo, erano i tempi in cui Ferrari arrivava sì e no al milione. Equipe 5 divenne lo status symbol di una generazione da boom economico ma soprattutto lo straordinario veicolo di immagine di un Trentino da esportazione. Alla fine degli anni Ottanta per tante ragioni («Famiglia, salute, ma anche perché forse eravamo soprattutto artigiani e non imprenditori puri»), l’etichetta passa di mano e finisce di essere sinonimo della viticoltura a nord di Verona: prima il gruppo Buton, quello della Vecchia Romagna, poi Cinzano e infine Cantina di Soave, la coop veneta che da qualche anno ha resuscitato l’etichetta e ne fa un Brut all’altezza di quella prima grande bottiglia del 1961. Ma cosa ha lasciato questa bella storia spumantistica? «Mah, non so davvero cosa dire. La nostra idea fu innovativa, ma allora non fu capita, forse eravamo troppo avanti noi. A partire dal nome francofono che avevamo scelto e che per quei tempi, ancora quasi autarchici dal punto di vista linguistico, fu quasi una palla al piede: alla fine quasi tutti lo pronunciavano storpiandone il nome. Anche la cooperazione allora non capì: invece di scegliere con decisione la strada dello champenois, si buttò sugli charmat. Capite bene la differenza». Leonello Nello Letrari, dalla bellezza dei suoi ottant’anni e reduce da un intervento a cuore aperto (30 anni fa), è ancora uno di quei giovanotti di belle speranze degli anni Sessanta che già allora, e oggi più di allora, avevano molte cose da dire e da insegnare. Ma soprattutto non è un uomo che vive di ricordi. Anzi, parla più volentieri del futuro che del passato (con quello ha già fatto i conti e lo ha archiviato in un prezioso libricino uscito qualche anno fa, a cura di Nereo Pederzolli, per ArtimediaEnoika: “Viti e vini di una vita”). Ma del futuro vuole parlare in grande, pensa alle strategie. Non vuole lasciarsi invischiare nelle polemichette e nei litigi che anche in questi giorni stanno annegando l’associazione dei Vignaioli: «Lasciamo perdere, qui si continua a litigare. E non ne esce niente di buono». Ma se gli chiedi un’opinione sul futuro dello spumante italiano non si tira indietro: «Questo per lo spumante è un momento magico, le vendite si sono impennate. Ora siamo dentro l’onda giusta e la dobbiamo cavalcare». Sì, ma come? «Abbiamo bisogno prima di tutto di un ombrello nazionale, un marchio italiano che racchiuda tutte le nostre esperienze spumantistiche. In Spagna hanno Cava, in Francia lo Champagne. Noi non siamo riconoscibili, siamo rimasti un arcipelago con tante eccellenze ma senza un marchio comune. Eppure uno strumento ce lo abbiamo, è il Talento (Nello, a suo tempo ne è stato uno dei fondatori, come è stato fondatore dell’istituto italiano spumante, ndr). Usiamo questo marchio per farci conoscere nel mondo, altrimenti, se ognuno fa per sè, come sta accadendo oggi, non andremo da nessuna parte». E il TrentoDoc? «Quello è un valore aggiunto, una storia da raccontare dentro la storia del Talento. Ma non basta per essere riconosciuti nel mondo. Se le istituzioni provinciali in questi anni hanno fatto qualcosa di buono è stato di credere nello spumante, ma non bisogna illudersi basti il nostro marchio locale per sfondare sui mercati mondiali. E poi andrebbe promosso in un altro modo». Come? Nello sorride e poi dice la sua da astuto uomo di marketing, oltre che di spumante, quale è: «Smettiamola di promuovere lo spumante solo negli hotel a 5 stelle, come se fosse un oggetto extra lusso. Lo spumante dobbiamo farlo bere a tutti. Invece di sponsorizzare le feste della birra si facciano le feste campestri dello spumante, con i calici ad un euro. Con tutti i soldi che si spendono in promozione, se solo un terzo fosse destinato a questo genere di iniziative avremmo già fatto un bel passo avanti. E invece vedo che si continuano a spendere soldi per grandi eventi destinati alle élite, ai vip che lo spumante lo bevono solo se glielo regali». Una bella provocazione, che arriva da un protagonista geniale e innovatore della viticoltura italiana. Un doppio anniversario (Fojaneghe ed Equipe 5) di cui in Trentino, tuttavia, quasi nessuno si è ancora accorto. Poco male: delle invenzioni e delle innovazioni di Nello Letrari si sono ricordati in Valpolicella e nelle valli padane. Domani, a Parma, sarà ospite di una serata con duecento invitati organizzata da imprenditori, consumatori e amici emiliani. Auguri Nello, grande vecchio dell’enologia italiana e ideologo dello spumante per tutti. E non solo per i vip.