Archivio per ottobre, 2011

Si chiama Sol. Come sole, in dialetto trentino. E Sol come solo, sempre in dialetto. Dunque un vino che nasce con un’esposizione perfetta al sole in tutte le ore del giorno. E di cui ne sono state prodotte solo 600 bottiglie. E solo da uve coltivate, e vinificate, con tecniche naturali. Sol, insomma. Si tratta di un Sauvignon trentino, annata 2010, prodotto da vigneti maturi, piantati circa 30 anni fa sulle colline di Castel Noarna nell’alta Vallagarina (Tn), sulla sponda destra dell’Adige. Trattandosi di Castel Noarna, avete già capito chi sia il produttore. Sì, proprio lui: Marco Zani, il vignaiolo-ristoratore roveretano che da qualche anno sulla collina di Nogaredo sta conducendo interessanti sperimentazioni, e non solo, biologiche e biodinamiche. Sol sarà presentato in premiere sabato prossimo, 5 novembre, nella cantina-castello della famiglia Zani. Fra le 16 e le 18, il programma prevede degustazione, visita ai vigneti e possibilità di prenotare la bottiglia, in anticipo di qualche settimana sull’inizio della commercializzazione. Questa la cronaca dell’evento. Ma c’è dell’altro. Dietro questa iniziativa si intravede la mano di Luca Bini, il patron della Casa del Vino di Isera, di cui Zani come la maggior parte dei vignaioli lagarini è socio. Le due barriques da cui è stata prodotta la bottiglia, infatti, sono state acquistate dalla gestione di palazzo de Probitzer. “Ho fatto un assaggio in cantina, direttamente dal legno, qualche mese fa – ha raccontato Bini – e ho capito che attorno a questo vino si poteva costruire una bella operazione di comunicazione. Le caratteristiche estreme di questo bianco, secondo me, ci consente, infatti, di organizzare un’operazione di grande impatto”. Sol, dunque, nasce dalla partnership fra Casa del Vino e uno dei suoi vignaioli. Una sorta di numero zero che potrebbe fare da apripista ad altre iniziative simili con altri consociati. Ma veniamo al vino. Io lo ho assaggiato un paio di giorni fa seduto ad uno dei tavoli dell’enoteca di Isera, in prima assoluta. Sulla bottiglia un’etichetta ancora da sistemare definitivamente, ma già ben abbozzata. Sol è un vino estremo. Si capisce subito che è il frutto di una scelta radicale: le tecniche bio in campagna, la vinificazione naturale, la lunga permanenza in barriques, un anno, e l’imbottigliamento senza filtrazione. Tutti elementi che, appunto, ne fanno un vino che si percepisce immediatamente come estremo. La prima impressione, devo dire, è stata di un impatto esagerato della componente legnosa, sia in bocca che al naso. Però, per onestà, confesso subito che i legni non ricadono fra le mie preferenze olfattive e gustative. E preciso anche che il vino era stato messo in bottiglia solo da pochi giorni. Tutti elementi che, forse, all’inizio mi hanno distratto e portato fuori strada. Tuttavia, la vera sorpresa, è arrivata poco dopo; quando il profilo acutamente legnoso ha lasciato subito il posto ad una sensazione balsamica molto persistente che allude ad un’accentuata componente minerale contenuta in queste uve coltivate in collina. Chi mi stava accanto, e stava bevendo insieme a me, ha osservato genialmente: “Sembra di sentire quell’odore di sassi sfregati l’uno contro l’altro, che sentivamo quando da bambini giocavamo con la terra in mezzo ai campi”. Mi è parsa un’immagine calzante per raccontare la sensazione vivacemente mineralizzata, profusa a lungo da questo vino, anche dopo aver finito di berlo. La stessa sensazione che mi ha fatto pensare ad alta voce: “Questo vino lo si apprezza più dopo averlo bevuto che mentre lo si beve”. Come una boccata di freschezza rigenerante, come il piacere che provi quando sei in debito di ossigeno e finalmente ti si spalancano i polmoni. Così Sol mi ha spalancato le narici e le mucose. Un piacere fisico che vuoi subito ripetere. Perché ti regala il senso della vitalità e di quanto sia bello respirare. Questa è stata la mia esperienza con Sol, dopo averlo bevuto. Naturalmente, si tratta di Sauvignon trentino, quindi elegantemente e armoniosamente lontano dalle esperienze grasse e invadenti alle quali ci siamo abituati in questi anni con i Sauvignon altoatesini e friulani. E’ un Sauvignon trentino, gustosamente impregnato di frutta bianca molto matura, che prevale sui sentori vegetali dei Sauvignon alla moda su cui ci siamo fatti la bocca. Seppure con tutti i distinguo di cui abbiamo detto prima, caratteristiche che ne rendono unico ed estremo il profilo sensoriale. Ma che, a mio parere, risulta ancora troppo giovane per essere apprezzato fino in fondo. Il che mi fa pensare che questa bottiglia darà il meglio di sé con la maturità, fra cinque, dieci, forse anche quindici anni. Si accettano scommesse. E questa è una buona buona ragione per prenotarne qualche bottiglia già durante la premiere di sabato prossimo. Voto 7,5 in attesa di un 9 fra qualche anno.

2927147_640pxBreve aggiornamento al post della settimana scorsa intitolato “Trentodoc o della comunicazieone autoreferenziale“: il servizio informazioni di Trentodoc (info@trentodoc.com) non ha ancora risposto alla mia email, inviata una decina di giorni fa. La sezione del sito riservata ai giornalisti è ancora off line. L’elenco dei produttori di Trendoc non è ancora stato aggiornato. Insomma, siamo passati dall’autoreferenzialità all’afonia. Eppure mi pare che le scampagnate promozionali a Roma e a Madrid, siano finite.  A proposito, come sono andate? Qualcuno, in Trentodoc, vorrebbe cortesemente farcelo sapere? O dobbiamo pensare che l’afonia di queste settimane sia diventata permanente. A meno che, naturalmente,  non si tratti invece di un’astutissima strategia di marketing. In questo caso, ci leveremmo tanto di cappello: saremmo di fronte ad un capolavoro comunicazionale!

Dunque, non è per essere polemici a tutti i costi. Fra l’altro l’assessore all’Agricoltura e al Turismo della Provincia di Trento, Tiziano Mellarini, è anche un buon amico. Ma questa volta non riesco proprio a trattenermi. Scoprire l’entusiasmo dell’assessore, non dell’uomo di mezz’età sensibile per vezzo e per capriccio a qualsiasi moda d’importazione, ma dell’assessore nella sua veste istituzionale, per il rito di Halloween, mi ha fatto una certa impressione e mi ha portato a fare un paio di riflessioni. Qualche giorno fa, intervenendo ad una conferenza stampa a Rovereto organizzata dai commercianti per promuovere una tre giorni, questo fine settimana appunto, di dolcetti e scherzetti nei negozi della città, l’assessore ha dichiarato testualmente (riporto dalle cronache del quotidiano L’Adige): «Questa iniziativa non solo mette a valore un prodotto dell’agricoltura, come la zucca, e lo coniuga con la proposta d’intrattenimento. Ma riesce a proporre una manifestazione che si rivolge alla comunità ed ai turisti, che qui possono trovare proposte che possono interessare sia ai bambini che agli adulti, con un pensiero particolare riguardo alle famiglie». Detto per inciso, sarebbe interessante conoscere nome e cognome di chi ha avuto la macabra fantasia di suggerire al Mella, perchè di sicuro, conoscendolo bene, non deve essere stata sua, l’idea strampalata che i turisti possano essere anche solo sfiorati dal pensiero di scegliere l’estrema provincia dell’impero come meta ideale per festeggiare Halloween. Mettiamo in chiaro subito che la liturgia americanista di Halloween, non mi fa né caldo né freddo. Oddio, mi fa un certo effetto, da un punto di vista antropologico e sociologico, osservare come nel giro di pochi anni la società italiana, anche nell’ultimo dei paesi di montagna dell’italica provincia, abbia assorbito acriticamente una gestualità sociale e culturale che le è, che le era, completamente estranea. Ma tutto questo sta gioiosamente dentro nel gioco al massacro dell’omologazione consumistica e mediatica indotto dalla globalizzazione. Niente di nuovo. Poi capisco anche che i commercianti, che fanno il loro mestiere, soprattutto di questi tempi in cui non si batte chiodo e non si battono scontrini, si aggrappino a qualsiasi occasione pur di far entrare qualcuno nei loro negozi. Fanno bene. Dal loro punto di vista fanno bene. Almeno in una visione di breve termine. Quella che, invece, mi riesce difficile comprendere è la posizione di chi dovrebbe promuovere l’agricoltura e il turismo della nostra provincia. A meno che il mitico Mella, in questi giorni, non stia vivendo il suo sogno dentro la magica zucca di Cenerentola. Ma anche le fiabe, si sa, devono avere un senso. E quella di Cenerentola ce l’ha. Sorvoliamo pure sull’ilarità contenuta nella dichiarazione dell’assessore (“Questa iniziativa… mette a valore un prodotto dell’agricoltura, come la zucca”): quante zucche commestibili si producono al Trentino? Quante sono le ricette della cucina trentina legate alla zucca? Quanti sono i ristoranti, e i banchi del mercato contadino, che propongono la zucca, naturalmente a parte il tormentone di questi tre giorni di fine ottobre? Domande a cui sono sicuro l’assessore vorrà rispondere, in qualche suo ritaglio di tempo fra una conferenza stampa e l’altra. La mia memoria di bambino, nato in campagna sulla montagna del Basso Trentino, mi fa ricordare le zucche coltivate negli orti a solo scopo esornativo e ludico: a maturazione, a fine estate, le usavamo per giocare; le svuotavamo dalla polpa e le trasformavamo in mostruose e simpatiche maschere vegetali. Le nostre mamme, invece, le appendevano alle finestre accanto ai gerani. L’estetica contadina ha sempre avuto un suo perché molto concreto. Ma tutto qui. Insomma, la zucca in Trentino, a mia memoria ma posso anche sbagliare, non è mai stata la zucca, per esempio, della pianura padana, mantovana o emiliana, ingrediente principe di alcuni piatti formidabili, di cui fra l’altro sono golosissimo. A tutt’oggi, e mi capita ancora di girare fra gli orti di campagna e di seguire la cucina regionale, non mi pare che le cose siano cambiate. Anzi zucche se ne vedono meno di allora. E tuttavia, Mellarini, ci ricorda che la zucca è un prodotto dell’agricoltura: certo che lo è. Ma non dell’agricoltura trentina. A meno che, e noi non ce ne siamo accorti, nel frattempo il Mella, oltre che delle Dolomiti, non sia diventato, tutto può essere, anche ambasciatore delle tradizioni agricole e gastronomiche padane. Forse siamo di fronte ad un leghismo strisciante che pian piano si va facendo strada anche da queste parti. E sarebbe un gran peccato. Ma, a parte questo, c’è qualcosa di veramente sconcertante, nella dichiarazione dell’assessore. Perché afferisce all’idea sistemica delle politiche di valorizzazione e di sostegno dell’agricoltura trentina in chiave turistica (non a caso i due assessorati sono stati giustamente accorpati). E qui il discorso si fa davvero più serio. Appiccicare la farfalla, brand ancora attuale del turismo trentino, sulla zucca di Halloween, a mio parere, denuncia uno strabismo, ed è il meno che si possa dire, della visione politica dell’assessore e forse anche del Trentino nel suo insieme. La simpatica liturgia del dolcetto-scherzetto, infatti, si colloca dentro quei fenomeni di globalizzazione culturale e sociale che annichiliscono le differenze, che cancellano le biodiversità, che fanno precipitare le identità territoriali, nel tritacarne, o nel frullatore, della cultura indifferenziata e del gusto omologato. La zucca di Halloween ci rende tutti uguali, da Seattle a Trento. Vista in questo modo è uno straordinario veicolo egualitario. E’ una, dieci, cento mille Coca-Cola. E’ questa la strada indicata dalla politica per ricominciare a produrre ricchezza dalla coltivazione della terra? Se è così, non c’è niente di male. O forse sì, ma discutiamone. Se è questa è la strategia che si intende seguire, e se l’assessore ne è convinto, allora la pianti di parlare di marketing territoriale, di filiera corta, di Km zero, di terroir e la smetta di complicarsi la vita inseguendo le Dop, le Doc, le Igt, le TrentoDoc, la tracciabilità delle etichette e tutto il resto. Se la prospettiva a cui tende il Mella è la mcdonaldizzazione dell’agricoltura e del turismo, tutto questo è perfettamente inutile. E’ tempo perduto. Se l’esempio che intende seguire è quello di Zaia, che da ministro dell’agricoltura inaugurò il Mc Italy – e si è visto come è andata a finire -, o quello dei panini di Gualtiero Marchesi, che in queste settimane sono comparsi nei menù italiani di Mc Donald – ma Gualtiero Marchesi è un’istituzione della cucina internazionale non un’istituzione pubblica che ha il compito di immaginare il futuro di un sistema economico -, allora l’assessore si dia da fare e metta a punto un pacchetto di politiche coerenti con questi obiettivi. E poi cominciamo a discuterne senza pregiudizi. O almeno proviamoci. Anche se questo scenario, a me personalmente, ricorda pericolosamente i tempi, nemmeno tanto lontani, in cui Cavìt riempiva gli scaffali degli store americani con anonime bottiglie di Pinot Grigio delle Venezie: lo scotto di quelle scelte, lo sta pagando oggi e a caro prezzo tutta la viticoltura trentina. Ma se ne può, senz’altro, discutere. Però bisogna essere chiari fin dall’inizio e bisogna scegliere cosa si vuole fare e dove si vuole andare. Perché, se c’è un errore che la politica non deve fare è proprio quello di scegliere tutto, e il contrario di tutto, senza distinguere, senza differenziare, senza filtrare. Che è come dire non scegliere e accettare supinamente tutto ciò che accade. Ma tutto ciò che accade, attenzione, è già accaduto. E’ già vecchio, è già superato. Se la politica può compiere, e mi pare ci siamo vicini e non solo a Trento, un errore fatale, è quello di dare l’impressione che tutte le scelte e tutte le azioni, anche se vanno in direzione opposta e contraria, siano di per sé buone e siano assumibili come paradigma. A prescindere dagli obiettivi. Anzi senza averne nemmeno uno. E’ l’ideologia del fare tanto per fare, è l’ideologismo dell’indifferenza e del sincretismo indifferenziato. Purché funzioni. Sempre che funzioni. E’ la mitologia estrema della prassi senza teoria. E’l’epica quotidiana dell’azione senza pensiero. E’ la zucca di Halloween coniugata, per usare un’espressione mellariniana, a Rovereto per valorizzare l’agricoltura (?) e per attrarre turismo(?). Io, però, continuo a preferire la zucca magica di Cenerentola e le favole. Quelle vere. Quelle che, alla fine, insegnano qualcosa. E qualcosa di buono.